Bergson e il superamento del dualismo cartesiano

Bergson e il superamento del dualismo cartesiano. Quella di Bergson potrebbe essere definita una filosofia dell’uomo nell’età della scienza. Infatti, Henri Bergson vive a pieno la rivoluzione scientifica e tecnologica, compresa la nascita del cinematografo.

Bergson si è ampiamente cimentato in speculazioni circa lo spazio, il movimento, addirittura sostenendo tre tesi specifiche a riguardo che Deleuze citerà nel suo dittico sul cinema, il tempo, l’evoluzione e la coscienza, a proposito della quale spesso e volentieri si è parlato di un’inversione di tendenza o di paradigma rispetto al modello classico di stampo cartesiano, da sempre riassunto nell’espressione cogito ergo sum, ovvero il pensiero rende il soggetto pensante un ente esistente in quanto consapevole del suo esistere.

Esaminiamo la questione in dettaglio. Comprendere il funzionamento della coscienza, della percezione, di ciò che è vita e vivente, diventa fondamentale per capire il meccanismo della fruizione cinematografica.  

Si potrebbe parlare molto a lungo e in profondità della valenza del pensiero di Bergson all’interno del panorama filosofico contemporaneo. Sicuramente ciò che emerge nelle linee generali è che la filosofia bergsoniana rappresenta, di fatto, una linea di pensiero caratterizzata da un’opzione di netto favore per l’immanenza assoluta. 

Bergson e il superamento del dualismo cartesiano

Bergson e James esprimono sicuramente posizioni di tipo metafisico o meglio “speculativo”, termine, quest’ultimo, di gran lunga preferibile a “metafisico”, parola ancora troppo intrisa, dati i tempi, di quell’accezione negativa a cui la scienza positivista ci ha abituati.  Metafisico non è comunque un termine taboo, del resto anche le neuroscienze contemporanee possono essere considerate alla stregua di aspetti sperimentali e sperimentati del pensiero metafisico. L’impostazione stessa di tutto il pensiero neuroscientifico è figlia di premesse di carattere metafisico, non esplicitate, ma che vengono però assunte come ovvie per agire poi all’interno del discorso. 

Bergson e il superamento del dualismo cartesiano

Per spiegare meglio, ciò significa che al di fuori di una primaria separazione tra una materia estesa e una materia pensante, come insegnava Cartesio, non sarebbe possibile tentare alcun discorso su concetti come quello di “rappresentazione”, “mente” “coscienza”, “origine della rappresentazione” e relativi problemi. 

Tali concetti aprono, insomma, a questioni che suppongono un sostrato di tipo metafisico che non ha fondamento sul piano dell’esperienza ed è stata proprio tale posizione cartesiana che ha segnato, in un certo senso, la storia del pensiero filosofico moderno, traducendosi nel tipico dualismo di principio contro cui la psicologia novecentesca, ad esempio, ha risposto propendendo chiaramente verso la componente riduzionistica della teoria di Cartesio, per cui l’aspetto “pensiero” ha finito con il coincidere in tutto e per tutto con l’organo fisico deputato al pensiero, ovvero il “cervello”.

Di contro, l’altra scelta potrebbe essere quella irrazionalistica che si prefigge di contestare la possibilità da parte della scienza di quantificare ogni cosa per rivendicare una dimensione assolutamente soggettiva e psicologica che chiami in causa un elemento non misurabile, qualitativo e non quantitativo, la cui pertinenza spetterebbe al filosofo, al letterato e al cineasta, se vogliamo già da ora includere il cinema all’interno del problema della coscienza.

Tuttavia, le alternative nette rivelano in realtà il loro essere poco funzionali a generare teorie valide, perché talvolta si rischia di produrre concetti che si contraddicono vicendevolmente. Sarebbe invece molto meglio provare ad invertire il vecchio paradigma cartesiano per superarlo e in una tale ottica è valido il rimando a pensatori come James, Bergson, Rouyer, Whitehead e successivamente Deleuze come massima rappresentazione della contemporaneità.

Tali filosofi costituiscono una vera e propria costellazione di pensiero il cui denominatore comune è dato dal fatto che tutti hanno provato a rispondere, per quanto diversamente, alla questione del dualismo cartesiano. Il Novecento si prefigge un diverso approccio al dualismo, la cui finalità è il superamento definitivo di esso in molti ambiti, in primis, in ambito psicologico. 

Questa costellazione di pensiero, sostanzialmente, si propone di trasformare il dualismo in un monismo, realizzando cioè ciò che Guattari e Deleuze in Mille Plateaux hanno definito essere la formula magica della filosofia sintetizzabile nell’identità: pluralisme=monisme (Deleuze, Guattari, 1980, p.31)

Addentriamoci brevemente in queste costellazioni di filosofi contemporanei. Fermo restando che l’obiettivo comune è superare il dualismo, si possono effettivamente contare due grandi costellazioni, o correnti di pensiero oppure filoni.

Fenomenologia

Abbiamo il filone della fenomenologia che è poi stata la risposta dell’analitica esistenziale, dell’ermeneutica e del decostruzionismo che sostiene come il dualismo si superi attraverso il concetto di coscienza come “intenzionalità”.  Si supera il dualismo nella dimensione originaria della coscienza, per cui la coscienza è coscienza di qualche cosa (Husserl, 1937, par. 41), posizione sostenuta per l’appunto dalla fenomenologia di Husserl e destinata a divenire ben presto la via maggioritaria.

La fenomenologia, essenzialmente, critica il dualismo, scegliendo la via della correlazione coscienza-mondo come apriori universale. Ciò significa, riassumendo, che alle spalle di questa correlazione non si può andare oltre ma contemporaneamente a questa posizione. C’è stata anche un’altra scelta, più radicale, elaborata dalla seconda costellazione di pensiero. Essa trova il suo cuore pulsante nella filosofia di Bergson che sostiene la coestensione della coscienza con la vita (Ronchi, 2017, p. 317). 

La linea bergsoniana, dunque, afferma che ogni coscienza non si limita ad essere coscienza “di qualcosa”, ma ogni coscienza “è qualcosa” (Bergson, 1896, Cap. 3) da cui la coscienza come superficie assoluta secondo Fechner. 

 E’ chiaro che il discorso cambia di molto. La prima ipotesi, quella fenomenologica è basilarmente di ordine antropologico. Invece la seconda è naturalistica e si ricollega in un certo senso a quell’ideale di filosofia della natura, esplicitato dal tardo Shelling che diventa, a questo punto, referente diretto di Bergson.  La filosofia della natura è ciò che consente di formulare un’ipotesi abbastanza sconvolgente per i tempi, poi liquidata frettolosamente nel Novecento insieme a Bergson, emarginato in e fuori dalla Francia, ipotesi per cui coscienza e vita sono coestese. 

La coestensione tra coscienza e vita, avente già di per sé un forte impatto, non riguarda solo la coscienza e la vita nella sua differenza con ciò che non è coscienza e vita, ma ha poi originato anche un passo ulteriore nel considerare puramente fantasmatico tutto ciò che non può essere considerato né coscienza né vita.  Si sta parlando di qualcosa che ha una dimensione d’apparenza ma non ha sostanza. La sostanza, la monade è coscienza, cioè vita. Le cose sono coscienza e la coscienza è una cosa.  Il primo capitolo di Materia e Memoria avanza proprio questa sconvolgente linea di pensiero per cui l’immagine sarebbe originaria, quindi, non c’è prima la cosa e poi l’immagine. 

A questo punto è piuttosto ovvio che se l’immagine è originaria, cioè non è immagine di niente, allora l’immagine è se stessa. Ciò che s’immagina (oggetto) e chi immagina (soggetto) vengono dopo, come se fossero una “ripiegatura” di questa immagine (Ronchi, 2017, p.317). 

Pensare l’immagine originaria, se l’immagine è coscienza, vuol dire che immagine e coscienza sono la stessa cosa. 

Sostanzialmente ciò che Cartesio dualizzava, chiamando soggetto e oggetto, sono per Bergson innesti. Cioè ripiegature di questa coscienza anonima, l’unica che può spiegare che tra la vita e la morte ci sia continuità. Prima si deve porre questa coscienza anonima, senza io, questo campo puro che ritroviamo anche in James, nell’ipotesi dell’esperienza radicale, secondo la quale l’esperienza nella sua immediatezza viene prima della relazione soggetto-oggetto che verrebbe di conseguenza dopo, in quanto modalizzazione dell’esperienza. 

L’esperienza radicale di James (W. James, 1912, Capitolo 5) è l’immagine di Bergson ma è anche la stessa cosa che propone Whitehead. Un punto di arrivo della questione, poiché in Whitehead si riscontra il tentativo di costruire una teoria dell’esperienza che non prevede la coscienza come suo polo di riferimento, dunque esperienza priva di coscienza, senza escludere che poi l’esperienza potrebbe correlarsi alla coscienza (Ronchi, 2017, p. 273).

In certi animali superiori come l’uomo esiste, infatti, una soglia, passata la quale, l’esperienza diventa cosciente e diventa esperienza umana. Questo è quanto enunciato da Bergson nel quarto capitolo di Materia e Memoria.

Dovendo dare una definizione di filosofia speculativa, egli sostiene la necessità di risalire la china dell’esperienza fino alla fonte dell’esperienza stessa, l’origine di essa, andando al di là del punto preciso in cui l’esperienza si è inflessa nella direzione dell’utilità e del pragmatismo diventando esperienza umana.

Solo facendo il cammino a ritroso, cioè quello che risale l’esperienza, per svelare dove l’esperienza si è fatta umana, è possibile trovare l’esperienza pura che non è esperienza di niente e di nessuno. E’ il luogo dell’assoluto comune, che non ha più come criterio per definirsi una gerarchia di esseri costituiti. Esso è comune nella misura che non appartiene all’uomo, all’animale o alla pianta ma è anche il comune che circola nella pianta, nell’animale e nell’uomo, pur non essendo animale, pianta e uomo.

Ciò che si chiama il vivente è proprio questo. Vita e vivente coincidono con il τό ὄν, dal greco, ciò che è.  C’è una proposizione abbracciata da buona parte di questi filosofi. Implicita in Bergson ed esplicita nelle correnti del pragmatismo, che costituisce quasi una sorta di punto fermo che si deduce dal Sofista di Platone (R. Ronchi, 2017, 93) , dove si trova l’unica definizione che Platone dà dell’essere. Nell’intero corpus platonico non esiste, di fatto, una definizione dell’essere a parte quella data nel Sofista. Esplicitata, tra l’altro, in una simpatica diatriba tra materialisti e idealisti. Ad un certo punto Platone propone una definizione minimale di “essere” tramite le parole dello straniero di Elea che è portavoce di Platone. “Essere” è potenza relazionale.  Affinché un ente “sia” è necessario che esso agisca e patisca almeno una volta. Se non c’è azione e passione non c’è essere. 

La superficie assoluta

L’essere non è qualcosa che viene prima di azione e passione, quindi anche di relazione e divenire. Agire e patire non sono predicati che si aggiungono ad una sostanza già data. L’essere non è nient’altro che il suo stesso agire e il suo stesso patire, ovvero l’azione senza attori. L’attore poi di rimbalzo si appropria di quest’azione. L’esperienza pura è azione senza attore o flusso di coscienza. Ovvero l’idea che costituisce proprio quel collante che tiene insieme tutte le esperienze del Novecento, ciò a cui mira Fechner in psicologia, o ciò a cui aspirano in filosofia James, Bergson con il conetto di immagine in sé, Ruyer con la “superficie assoluta” (R. Ronchi, 2017, p. 248) e Whitehead con la sua nozione di “processo” (R. Ronchi, 2017, p. 170) che è comunque pura superficie assoluta. 

Tutto ciò ha insomma un denominatore comune, cioè l’identità della coscienza alla cosa. Una cosa è una coscienza, qualsiasi cosa sia. Ciò che è coscienza di qualche cosa si costituisce come ripiego a partire da questa coscienza originaria che è coscienza di niente e nessuno. In quanto tale, questa coscienza originaria  è l’evento stesso di ciò che è. 

Si esaminerà in dettaglio in un altro articolo come Deleuze riprenderà in mano posizioni assolutamente immanentiste, nel suo dittico dedicato al cinema come strumento filosofico, chiarendo tra l’altro la sua relazione con Materia e Memoria di Bergson.

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