Cinquant’anni fa moriva Giuseppe Pinelli.

Sono passati cinquant’anni dalla morte di Pinelli, l’anarchico inizialmente accusato della strage di Piazza Fontana. Era innocente.

Giuseppe Pinelli era un anarchico, e per quanto sia strano doverlo ribadire anarchico non significa terrorista.

Giuseppe Pinelli era stato un partigiano che aveva combattuto per liberare l’Italia.

Giuseppe Pinelli era un ferroviere, un lavoratore, lo era fin da giovanissimo. Lasciò la scuola dopo le elementari ma lesse sempre molto in vita sua: era  uomo di cultura e di lavoro.

Era una brava persona.

Cinquant’anni fa morì volando giù da una finestra al quarto piano della questura di Milano, dove da tre giorni (quindi ben oltre la legittimità di un fermo di 48 ore) era trattenuto e sotto interrogatorio in seguito alla strage di Piazza Fontana.

Lo suicidarono e subito dopo, in fretta e furia, imbastirono un’ignobile conferenza stampa dichiarando che Giuseppe Pinelli, anarchico, ferroviere, uomo di cultura e di lavoro, si era suicidato perché smascherato, scoperto come uno degli autori della strage.

Improvvisamente il Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra che per il caldo era stata lasciata socchiusa e si è lanciato nel vuoto” questo scrissero cinquant’anni fa.

Non era vero niente.

La bomba l’avevano messa i cattivi: quelli che venticinque anni prima avevano perso guerra e potere e fu per questo che, negli anni di Pinelli e delle bombe, iniziarono un’altra guerra per riprendersi il potere. Questo però lo abbiamo capito solo dopo; all’epoca, negli anni di Pinelli e delle bombe, allo Stato servivano colpevoli: e Giuseppe, anarchico, ferroviere, uomo di cultura e di lavoro, da morto era il colpevole perfetto.

Che il piano, il complotto per farlo apparire responsabile di una strage, non sarebbe durato nel tempo, lo si capii sin da subito. Ai funerali una folla silenziosa mandò un chiaro messaggio ai cospiratori: non resteremo fermi. Non subiremo questa ingiustizia.

Le voci dei dubbi iniziarono a circolare, la versione ufficiale data dalla polizia era piena di errori, di incongruenze, contradditoria.

Il corpo dei morti parla e quello di Giuseppe diceva tante cose e tutte diverse da quelle che raccontavano gli agenti.

Per esempio, fu detto che a un poliziotto, nel tentativo di trattenere il “suicida” fosse rimasta in mano una scarpa, però il cadavere nell’aiuola sotto la finestra di scarpe ne aveva due. Tutto portava alla conclusione che Pinelli fosse incosciente durante il volo.

Inoltre c’era il particolare dell’ambulanza, chiamata alcuni minuti prima che Pinelli si buttasse di sotto…

Insomma, la storia raccontata dalla questura aveva buchi ovunque.

Si continuava a parlare, a fare domande, a cercare di capire come fossero andate realmente le cose.

Ancora oggi non c’è certezza della verità, dei particolari, dei momenti esatti, c’è però la certezza delle menzogne su cui la questura prese ad avvitarsi su se stessa in modo frenetico.

Bugie che coprivano altre bugie. Alla fine furono ben cinque le versioni “ufficiali” e con l’ultima si arrivò poi a quella mostruosità giuridica che concepii la teoria del “malore attivo” – in buona sostanza, durante un malore invece di sedersi o svenire cadendo per terra si sarebbe buttato giù dalla finestra-

Incredibile ma vero: hanno cercato di farci credere anche questo.

Dopo cinquant’anni possiamo dirlo: Giuseppe Pinelli, anarchico, ferroviere, uomo di cultura e di lavoro, è stato Stefano Cucchi quarant’anni  prima della notte nella stazione Appia, è stato Federico Aldrovandi prima che a Ferrara alcuni poliziotti chiesero i documenti a un ragazzo che poi morì, è stato Giuseppe Uva, è stato Aldo Bianzino, è stato il primo di tutti i morti dentro le caserme, dentro le celle di sicurezze, durante i controlli, i morti fatti dallo Stato. I morti assassinati fatti passare per morti normali.

Pinelli non c’entrava niente con la strage di Piazza Fontana, per molti lui fu la diciassettesima vittima, per noi fu vittima di un qualcosa di diverso, qualcosa che poi nel tempo abbiamo conosciuto bene.

Era innocente, lo era sempre stato, questo almeno glielo riconobbero relativamente presto. Non era un terrorista.

La memoria dei morti parla, e quella di Giuseppe Pinelli, anarchico, ferroviere, uomo di cultura e di lavoro, una brava persona, continua a farlo dalla sua sepoltura. Ci parla con gli splendidi versi scolpiti sulla sua lapide.

La macchina del «Clarion» di Spoon River venne distrutta

e io incatramato e impiumato,

per aver pubblicato questo il giorno che gli Anarchici

furono impiccati a Chicago:

“Io vidi una donna bellissima, con gli occhi bendati

ritta sui gradini di un tempio marmoreo.

Una gran folla le passava dinanzi,

alzando al suo volto il volto implorante.

Nella sinistra impugnava una spada.

Brandiva questa spada,

colpendo ora un bimbo, ora un operaio,

ora una donna che tentava di ritrarsi, ora un folle.

Nella destra teneva una bilancia;

nella bilancia venivano gettate monete d’oro

da coloro che schivavano i colpi di spada.

Un uomo in toga nera lesse da un manoscritto:

“Non guarda in faccia a nessuno.”

Poi un giovane col berretto rosso

balzò al suo fianco e le strappò la benda.

Ecco, le ciglia erano tutte corrose

sulle palpebre marce;

le pupille bruciate da un muco latteo;

la follia di un’anima morente

le era scritta sul volto.

Ma la folla vide perché portava la benda”.

(Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, epitaffio di Carl Hamblin)

È così che cinquant’anni fa moriva una brava persona come Giuseppe Pinelli, senza un perché.

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Redazione

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