Coronavirus: Medico anestesista rinnova appello al senso civico

Abbiamo chiesto un parere alla nostra amica Dottoressa Carla Locchi, Medico Anestesista Intensivista, che ha condiviso con noi una testimonianza fondamentale sulle condizioni in cui i nostri bravissimi medici lavorano, rinnovando un appello ulteriore a mantenere alti i livelli di coscienza civica per rallentare il contagio, buon senso e rispetto per le regole sanitarie per il bene di tutti i nostri concittadini in un momento di crisi e fragilità come quello attuale.

Un concetto non facile da comprendere per i non addetti ai lavori è l’assistenza intensiva, per non parlare di cosa significhi isolamento infettivo. In questi giorni ho sentito parlare spesso di posti letto “ventilabili” e varie altre fantasiose interpretazioni. Vorrei provare a spiegare, brevemente e nella maniera più semplice possibile, a dare qualche dettaglio, nella speranza che possa essere utile a suggerire atteggiamenti più responsabili in questo momento.

Quando un paziente presenta una polmonite bilaterale interstiziale, rapidamente ingravescente, tale che si accompagni a difficoltà respiratoria e comprometta gli scambi gassosi (ossia si abbassano i livelli di ossigeno nel sangue e si elevano quelli di anidride carbonica), si rende necessario intubare il paziente e connetterlo ad un ventilatore meccanico. Naturalmente il fatto di dover posizionare un tubo che, entrando dalla bocca, passa attraverso la laringe nella direzione della trachea, richiede che il paziente venga addormentato. Sia questa pratica, sia la gestione della ventilazione meccanica, sono ad appannaggio degli anestesisti, perché abbiamo studiato e ci siamo formati per questo. In aggiunta a questo è necessaria la presenza dei nostri compagni infermieri, quelli formati per le cure intensive, parimenti indispensabili.

Anestesisti e infermieri formati in questo ambito si trovano in un numero limitato in ogni ospedale.

In caso di contagio ed isolamento il numero si riduce ulteriormente.

Anche se è vero che un anestesista può trovarsi ad intubare un paziente in qualunque luogo (anche per strada nell’emergenza), la gestione di quel paziente critico, poi, richiede un posto letto in una unità di terapia intensiva, dove si trovino disponibili: un gran numero di prese elettriche e dispositivi come speciali pompe siringa in grado di erogare una infusione continua dei farmaci (non solo i farmaci per dormire, ma molti importantissimi altri), quelli per la nutrizione enterale del paziente (che ovviamente in coma farmacologico non può nutrirsi in autonomia), sistemi di aspirazione per le secrezioni bronchiali (che il paziente non elimina più autonomamente), monitors specifici e vari altri devices, progressivamente più costosi e più complessi da utilizzare nel caso in cui le condizioni del paziente peggiorino e diventi sempre più impegnativo assisterlo.

Tutti questi dispositivi si trovano in un numero sufficiente per l’ordinario ma sicuramente limitato in situazioni straordinarie.

Un paziente intubato e ventilato non può essere assistito in un reparto ordinario, se non per un breve tempo in attesa di trasferimento (cosa che accade quando ci si reca ad intubare, in consulenza, un paziente peggiorato in un altro reparto e per il quale, a quel punto, un anestesista non può più muoversi da lì fino a quando non riesce a trasferirlo, creandosi il problema di sottrarre l’anestesista da altre urgenze). Lo stesso vale per i pazienti che vengono intubati in pronto soccorso, dove la buona pratica clinica richiede che i pazienti vengano assorbiti al più presto nei reparti intensivi per non compromettere l’accoglienza dei pazienti nell’emergenza.

I posti letto di terapia intensiva in un ospedale sono limitati non solo dai costi di tali unità ma anche perchè coerenti con la necessità, diciamo statistica, in condizioni ordinarie.

Tutto ciò si complica ulteriormente sé parliamo di unità di cura per pazienti con infezioni da contenere. Se i posti letto di terapia intensiva ordinaria sono pochi, quelli che garantiscono un isolamento, anche fisico, efficace, sono ancora meno.

In assenza di camere a pressione negativa per l’assistenza di pazienti critici si deve disporre di una terapia intensiva strutturata in modo tale che ogni paziente possa essere fisicamente isolato da un altro, in una stanza chiusa, con circuiti di passaggio indipendenti. Questo diventa ancora più difficoltoso.

Conclusioni

Si deve allora ricorrere all’isolamento in coorte che, semplificando, vuol dire che tutti quei pazienti con lo stesso patogeno possono essere isolati nello stesso spazio. Possiamo farlo?

Certo, tutto si può fare, ma è una prospettiva percorribile con costi elevati:

  • Tutti gli altri pazienti che in urgenza richiedono cure intensive devono essere spostati altrove, magari in strutture che non sono di riferimento per quelle patologie (pensiamo ad esempio ai traumi della strada che necessitano di una struttura con tutte le specialistiche e una diagnostica strumentale H24).
  • Tutte le procedure elettive su pazienti che potrebbero richiedere un ricovero in terapia intensiva (che si tratti di interventi particolarmente “demolitivi” o che siano i pazienti ad avere comorbidità ad alto rischio) verranno rimandati. Sto dicendo che, ad esempio, i pazienti oncologici in attesa di intervento di resezione della massa tumorale potrebbero essere messi in attesa per mancanza di disponibilità di terapia intensiva.

Non so se sono riuscita a rendere l’idea, senza creare allarmismi ma con efficacia, del potenziale effetto domino, a cascata sul nostro prossimo (che, per inciso, può essere anche un nostro familiare o amico o qualsivoglia conoscente), che può scaturire da una richiesta elevata e improvvisa di posti letto in terapia intensiva.

Per questo è necessario rallentare il contagio, ossia non ammalarci tutti insieme, perché abbiamo le risorse e gli strumenti necessari per curarci bene e tutti ma non se ci ammaliamo tutti insieme.

Il tempo medio di ventilazione polmonare in un paziente con polmonite interstiziale è difficile da stabilire a priori, sicuramente dall’ingresso alla dimissione si può calcolare un tempo non facilmente inferiore ai 7-10 giorni.

Questo non dovrebbe significare smettere di vivere una vita sociale, con le dovute necessarie precauzioni, ma poiché dalle immagini che ci arrivano dai social e dai TG in questi giorni si evince una totale assenza di senso civico e responsabilità, mi associo anche io ai tanti miei colleghi che, a gran voce, vi ripetono di stare in casa o comunque evitare assembramenti e sconsiderate riunioni. Sono stati sospesi gli aggiornamenti professionali, mi viene da pensare che aperitivi e feste condotti senza misure di precauzione, siano di minore importanza!

Per quanto invece riguarda il personale sanitario tutto, impegnato o meno in prima linea con questa battaglia, mi sento di esprimere un pensiero certamente condivisibile e cioè che non abbiamo bisogno dei vostri ringraziamenti, in questo momento, ma del rispetto della nostra opinione e della vostra collaborazione.

Grazie.

Dott.ssa Carla Locchi

Medico anestesista intensivista

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Redazione

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