Il cittadino e il politico nell’antica Roma

Saint-Just aveva nostalgicamente affermato che “dopo i Romani il mondo era vuoto” iscrivendosi in un filone di pensiero che lo accostava a Rousseau, ma molto più a Montesquieu, per il quale «Il grande ideale liberale è una vita umana ricca, multiforme, sfaccettata, complessa, in cui il potere politico e l’ordine giudiziario mettano i cittadini al riparo da qualunque prevaricazione». 

Saint-Just vive la rivoluzione francese e dunque bisogna considerare il particolare clima politico culturale della Francia a lui coeva. Montesquieu muore prima ma è proprio Montesquieu ad essere considerato il principale teorico della separazione dei poteri, aspetto che inevitabilmente rimanda a quella ben nota tripartizione dei poteri del mondo romano teorizzata da Polibio che aveva parlato di costituzione romana come “costituzione mista”. 

Naturalmente essendo Saint Just infervorato dal clima del suo tempo, non poteva, come del resto fece anche Rousseau, che voltare le spalle alla modernità per fondare nel contratto sociale le condizioni costitutive di ogni società civile. 

Civile viene dal latino, civilis,e e l’area semantica rimanda alla civitas (la città), al civis (cittadino). Dunque l’essere cittadino, il fare parte di un gruppo umano associato che vive secondo un corpus di leggi ben definito, è l’unica condizione che consente all’uomo, preso singolarmente, di compiere quel salto di qualità che lo rende appunto “civile”, ovvero parte di una comunità nota come città e attore dunque di un contratto sociale. 

Insomma solo colui che è cittadino, è uomo, come è popolo solo quello libero e sovrano. Originariamente populus significava popolo in armi ed è un’immagine particolarmente consona agli eventi relativi alla rivoluzione francese, esattamente come l’intera storia di Roma che ha conquistato, pacificato il Mediterraneo, unificato Occidente e Oriente con i suoi eserciti, i suoi coloni, i suoi funzionari, dipinge un panorama piuttosto evocativo di quella che è stata considerata la “matrice dell’Europa moderna”. 

Roma, rappresenta, scrive Giardina, tutte le possibili ipostasi della politica: la nascita di una comunità, l’organizzazione di poteri civici e la conquista dei diritti da parte del popolo contro i grandi. La legge agraria dei Gracchi apre alle “questioni sociali”, termine moderno che mai nessun romano avrebbe utilizzato, e ai sussidi pubblici e ciò fa sì che a fine XVIII secolo, l’aurora della libertà sembra introdurre nuovamente nel tessuto del Francia post rivoluzionaria, antichi processi che in realtà sono deviazioni dal modello romano, da cui la rivoluzione come guerra civile e Roma, indipendentemente dalla sua grandezza e dalla sua depravazione, diventa modello ammirato o temuto. 

Non stupiamoci del fatto che i francesi di fine XVIII secolo siano stati ossessionati da Roma se gli stessi Cicerone, Livio, Plutarco e Tacito si erano fatti della Grecia e di Roma un’idea ben precisa sulla base di un tradizione scolastica e moralizzatrice che esaltava la virtù civica e militare, che veniva rappresentata in piena azione nella Repubblica e rimpianta in età imperiale, in modo particolari sotto cattivi dominanti. Tuttavia, Repubblica o Impero che sia, i Romani sono cittadini perché in possesso della cittadinanza secondo la nota equazione che anticipa la situazione teorica degli stati moderni scaturita dai “princìpi del 1798”, per cui nazionalità=cittadinanza. Una tale affermazione però comporta un fondamento necessario: tutti godono dello stesso diritto civile, sono regolati dallo stesso diritto criminale e hanno i medesimi diritti politici. 

Poniamoci solo una domanda: in 1300 anni di storia romana, la questione è sempre stata così? Analizziamo il concetto di cittadinanza a partire dalle origini di Roma per arrivare poi all’impero. 

Partiamo da una questione fondamentale: il rapporto tra cittadini e popolazione totale nella prima Repubblica quando Roma ancora non aveva cominciato la sua espansione nel Lazio. Troveremo solo schiavi, ovvero privi di diritti politici e uomini liberi. Dobbiamo poi precisare che uomini liberi si intende “civium capita” ovvero maschi idonei alla guerra che hanno raggiunto la maggiore età6 e naturalmente è doveroso anche precisare che i famosi schiavi liberati o “liberti” acquisiscono diritti civili ma non politici. Con il IV secolo a.C, Roma incomincia ad estendersi fuori dal Lazio e conquista l’Italia creando colonie, municipi e civitates sine suffragioovvero centri urbani legati alla potenza egemone attraverso tutta una serie di condizioni e istituti giuridici peculiari che porteranno a distinguere da un lato i Romani, cittadini di pieno diritto (optimo iure) e gli Italici, ovvero alleati che per alcuni aspetti si assimilano giuridicamente parlando ai Romani, per altri no. Gli alleati, tanto per citare un aspetto che li distingue dai Romani, fornivano soldati a Roma facendosi carico da soli delle spese militari, ma non avevano diritti politici e lo stesso vale per i municipi. 

I municipi mantenevano l’autonomia governativa locale, ma i cittadini non godevano di diritti politici e dunque non potevano partecipare alle assemblee cittadine romane. Perciò la popolazione accresce in maniera esponenziale, ma la crescita è inversamente proporzionale al numero dei cittadini effettivi che hanno diritti politici, che sono davvero in minoranza. 

Con la guerra sociale (90-89 a.C) gli alleati chiederanno la cittadinanza per ovvi motivi di vantaggio e anche quando l’avranno ottenuta, l’inserimento nelle 35 tribù romane sarà un processo lento e pieno di ostacoli, così come testimoniato dai censimenti. Bisognerà aspettare l’impero per avere una registrazione di censimenti che include donne, vecchi e bambini per poi arrivare con il III secolo d.C alla svolta totale. E’ infatti nel 212 d.C che Caracalla emana il suo famoso editto, giuridicamente noto come “consitutio antoniniana” in base al quale, chiunque sia nato entro l’ecumene romana è di fatto cittadino romano. All’atto pratico, i provinciali diventano tutti, a parte i dediticii(minoranze non ancora romanizzate, il cui destino giuridico era appeso alla volontà dell’imperatore), cittadini romani. 

Ciò consente già di parlare di cittadini romani piuttosto che di cittadino romano dal momento che in 1300 anni di storia romana, traspare una profonda differenza tra l’essere cittadino nella Roma annibalica o essere cittadino in età augustea o sotto Caracalla. 

La cittadinanza è uno status giuridico, in latino si dice ius e quel tipo di ius che si applica a tutti si dice ius civile o diritto dei cittadini, che tuttavia, nel diritto romano non significa obbligo o vantaggio politico, quanto diritto privato e diritto penale in termini moderni. Chi è cittadino, insomma, vedrà i propri rapporti familiari, personali, patrimoniali, commerciali ben regolati secondo un diritto comune. Questo è in sostanza l’ideale della città del mondo antico che Aristotele e Platone già avevano espresso a loro tempo e che Cicerone poi riapplica al caso specifico di Roma. Ciò traduce quell’uguaglianza davanti alla legge che contraddistingue tutti gli associati. In teoria chi è vittima di un sopruso impugna davanti alla legge il proprio diritto nel vedersi riconosciuta la giustizia. Nel mondo romano di certo esiste una differenza di natura o di patrimonio ma la comunità di diritto è elastica. Le disuguaglianze in linea di massima riguardano la sfera privata e di fronte ad esempio ad un delitto spariscono. Lo ius civileè un organismo che si sviluppa per stati successivi e tende, per quanto salvaguardi gli iura individuali, all’universale. 

La storia del diritto romano classico da Cicerone a Pomponio, passando per Livio e Tacito si conforma sostanzialmente a quanto appena detto. La teoria c’è insomma, ma la pratica è tutt’altra cosa. Si pensi ai rigidi interdetti in materia procedurale che separavano patrizi e plebei prima delle lotte tra patriziato e plebe romana. Alla fine dei conti, l’ultimo secolo della Repubblica fu il periodo più egualitario, ma con l’impero le disuguaglianze sociali crescono. Il II secolo d.C, considerato l’apogeo dell’impero, dal punto di vista sociale, divide nettamente gli honestiores dagli umiliores anche in termini di distinzione delle pene. Ad esempio la pena di morte veniva comminata solo agli umiliores ma si traduceva in esilio per gli honestiores. Ecco che lo ius civile forse non è più così equo. 

Il punto sta nel fatto che gli antichi concepivano la città come una comunità di interessi e non come un’astrazione trascendente. Cicerone sostiene che res publica equivale a res populi che ha un significato astratto e concreto insieme: beni comuni e interessi di tutti i cittadini, come corpo civico associato. Platone scrive che le città si costituiscono affinché la natura associativa del vivere insieme renda tutti più felici ma anche migliori, perché al concetto di violenza e forza pre-cittadina, si contrappone uno sforzo di interiorizzazione della violenza che prevede un accordo su fini e mezzi che non si basano sulla forza. Insomma vivere insieme è vivere meglio come conferma Cicerone nel De Officis. 

Naturalmente è insito nel contratto sociale che grandi vantaggi comportino anche dei doveri: obbligo fiscale, obbligo militare, esercizio di certe cariche e dunque il cittadino diventa ora un soldato che può essere mobilitato, ora un contribuente, ora un elettore e ora un potenziale candidato a magistrature. Cincinnato l’eroe che sconfigge Equi e Volsci era un contadino e quando viene nominato dittatore, Livio lo descrive proprio nell’atto pratico di arare i suoi famosi “quattro iugeri” di terra sul Quirinale. Amore di patria, dedizione alla cosa pubblica senza la quale lo stato non esiste, comporta di contro, un meccanismo di risposta in base al quale se l’onere è troppo grande o mal ripartito il legame tra cittadino e stato si rompe. I vantaggi devono essere in linea di massima superiori agli oneri e non uguali. 

Il cittadino e il politico nell’antica Roma

Roma rispetto alle città del mondo greco è per lunghissimo tempo rimasta saldamente ancorata alle istituzioni arcaiche. Se si pensa solo che il censimento venne introdotto in età regia da Servio Tullio e perpetuato con le dovute articolazioni nel corso della storia. I censimenti sono operazioni che scattano una sorta di fotografia istantanea del corpo civico in un determinato periodo che fornisce informazioni sulla struttura dello stesso. Le centurie ovvero gruppi di cittadini che in base al patrimonio hanno funzione di unità elettorale e di reclutamento militare, definiscono precise classi che, dice giustamente Giardina, determinano in base al proprio posto sul campo di battaglia, il proprio posto anche nella società. Chi schiera i propri uomini in guerra e ne versa il sangue matura maggiori diritti politici perché assolve oneri maggiori. E’ logico e naturale che i poveri dal punto di vista numerico fossero in quantità maggiore dei ricchi, ma gli aristocratici potevano permettersi di detenere armi idonee al combattimento e morire per Roma. Se il meccanismo di votazione fosse stato individuale i ricchi non avrebbero mai avuto quella maggioranza che l’organizzazione centuriata permetteva loro. 

Il passaggio da guerra aristocratica incentrata sulla cavalleria ad un modello di combattimento oplitico falangitico prima e poi la guerra annibalica, hanno notevolmente prodotto numerosi cambiamenti nel processo di reclutamento, aprendolo anche ai poveri soprattutto per necessità, specie nel caso delle guerre annibaliche. D’altronde l’esercito cosa è se non uno dei tre settori essenziali della vita civica insieme alla politica e alla classe politica? 

Dopo la guerra condotta da Roma contro Veio, guerra che impegnò moltissimi anni l’Urbe, gli uomini erano rimasti lontani per troppo tempo dalle loro famiglie, tanto che venne istituito uno stipendium che non è proprio lo stipendio in senso moderno, ma un indennizzo il cui ammontare è assicurato dalla riscossione di un tributum come imposta diretta sulla ricchezza pagata dagli individui atti alle armi. Con il duro colpo inflitto ai Romani a Canne, l’esercito si è trovato totalmente dimezzato, da cui il reclutamento di uomini di classe sociale bassa che si trovarono improvvisamente inclusi nelle classi di censo per rendere tali individui mobilitabili insieme agli altri regolari coscritti. Insomma, il proletariato fa il suo ingresso nelle file dell’esercito, ma non si può certo dire che ne trae enormi vantaggi. Dopo la battaglia di Pidna (168 a.C), Roma ha tra le mani un bottino così vasto e una ricchezza così immensa che lo stesso Cicerone ci dice che il tributum poteva tranquillamente essere abolito. Ciò andò a vantaggio dei ricchi che lo pagavano, ma i poveri non lo pagavano neanche prima in quanto l’unica ricchezza di cui disponevano come la parola “proletario” rivela era la propria prole. 

Per parlare di professionalizzazione dell’esercito, dobbiamo aspettare l’Impero, passando per le parentesi mariane, sillane e cesariane, ma professionisti della guerra o no, i soldati semplici non si sono arricchiti ma a differenza loro, i generali, che tra gli illustri parenti vantavano quei vecchi soldati appartenenti alle prime due classi censitarie, hanno fatto grandi carriere. Un po’ diverso è il discorso del veterano che affronteremo in dettaglio nel capitolo relativo al soldato. 

Quindi l’esercito è il primo settore. Il secondo settore è la politica. Naturalmente, come abbiamo già detto l’organizzazione centuriata crea da sé il binomio esercito-politica perché le centurie funzionavano oltre che da unità di reclutamento anche da unità di voto. Dunque ci avviciniamo ad un tema caldo che ha fatto discutere molti storici; – i comizi centuriati, in base alla tripartizione operata da Polibio, possono davvero ritenersi effettivamente democratici? Partiamo proprio da Polibio che ha decretato che la costituzione romana funziona perché mista. Ciò significa che, rispetto a costituzioni assolutamente oligarchiche o assolutamente democratiche, Roma opta per una tripartizione dei poteri tra organi politici e magistrati. Il senato rappresenta l’elemento oligarchico, i consoli, l’elemento monarchico e i comizi (tributi, centuriati) l’elemento democratico.

La questione nasce dal meccanismo delle assemblee per il fatto che il sistema centuriato medesimo inibisce la democrazia. Quando si eleggeva un magistrato (maggiore o minore) il voto non era individuale, ma per centuria e lo stesso voto si riduceva ad un processo binario in cui il popolo per centurie era chiamato ad esprimere un parere favorevole oppure no nei confronti di una legge o dell’elezione di un magistrato. Quindi è binario perché si riduce ad un sì o ad un no. Per i comizi tributi alla fine il meccanismo è identico e non dimentichiamo una cosa importante: un comizio poteva essere sospeso da un magistrato di ordine superiore anche solo se si verificavano delle circostanze sfavorevoli che, ignorate, avrebbero compromesso il bene pubblico. I consoli del resto detenevano gli auspici e coadiuvati o no da un augure avevano la facoltà piena di sospendere un’assemblea. Dov’è dunque l’elemento democratico? Appio Claudio Cieco durante la sua censura pare avesse tentato una manovra di integrazione del sistema centuriato e del sistema tributo ma non è ben chiaro se l’intervento di Appio fosse in realtà a fini democratici o rispondeva solo a mere finalità di razionalizzare il meccanismo delle assemblee. 

Di contro è altresì vero che il popolo poteva riunirsi in pre-assemblee per confrontarsi ed esprimersi. Tali assemblee erano note come contiones e per quanto il principio fosse democratico, tuttavia il voto per centuria era il solo ad essere considerato valido. Aggiungiamo anche che da Augusto in poi con l’infrequentia comitiorum anche tale elemento “democratico” venne progressivamente meno. Possiamo affermare che le assemblee sono democratiche nell’accezione che i romani danno a “democrazia” che non coincide con il significato che noi moderni diamo alla parola democrazia. 

Chiudiamo il nostro discorso sulla classe politica romana e anche qui è doveroso e giusto ricordare che in 1300 anni di storia la classe politica romana è cambiata. La fine delle lotte tra plebe romana e patriziato aveva già portato alla conformazione di una nuova classe di ottimati, una nobilitas patrizio-plebea il cui supremo ideale era la guerra perché la guerra produceva bottino, ricchezze, gloria e la gloria militare apre splendide carriere politiche. Dunque ancora una volta politica e guerra strettamente associate. 

Il valore di questi ottimati che in latino si esprime attraverso la parole virtus(da vir che significa uomo) si esplicava nella gloria militare, il cui riconoscimento, gli honores si esplicitavano a livello di intera comunità civica (consensus civium) e soprattutto questa virtus si ereditava, da cui le numerose iscrizioni sepolcrali di famiglie come gli Scipioni o i Metelli che celebrano grandi e importanti famiglie di consoli, ex comandati di eserciti. Con il I secolo a.C, il meccanismo della virtus ereditata viene messa in crisi dagli homines nuovi cioè individui che non vantano consoli nell’albero genealogico, un tempo ex comandanti di eserciti, ma dimostrano comprovata esperienza sul campo, disciplina e tanta voglia di fare. Un nome a caso, Caio Mario.

L’altro grande nome è Cicerone che affiancherà ad una virtus militare, una virtus civile tipica di politico e di magistrato. Con Cicerone le armi cedono il posto alla toga. Marco Tullio, non è un soldato, ma un provinciale di Arpino che si è saputo industriare, fin da quando giovanissimo riuscì a battere in tribunale il più grande avvocato e oratore della Roma a lui coeva: Ortensio Ortalo. Da allora la sua carriera è in salita e il suo progetto politico e sociale risulta molto chiaro: l’arte della parola a servizio dello stato. La parola come strumento di lotta politica e dunque le orazioni. Quando parliamo di lotta politica, dobbiamo stare molto attenti a non proiettare concetti come destra o sinistra agli ottimati contro i popolari. Ottimati e popolari sono tutti nobili di estrazione, ma i popolari sono “alternativi” rispetto ai tradizionalisti, quelli che Cicerone chiama “boni” ossia uomini onesti, uomini dabbene, uomini che rispettano le tradizioni, uomini consapevoli che solo con l’accordo di senato e cavalieri (concordia ordinum) e dunque con l’accordo interno al ceto abbiente (consensus omnium bonorum) si può governare uno stato. 

Con l’impero cambia tutto. L’equilibrio tra princeps senato che Augusto costituì, alla fine, era solo un equilibrio di facciata per mascherare una continuità repubblicana in una Roma che non era certo più una città Stato. Un equilibrio destinato a venire meno nell’impero, quando i senatori rimpiangeranno le antiche libertà repubblicane fino alla trasformazione del Senato di età tardo imperiale in un mero organo burocratico i cui senatori si preoccupano più che altro di salvaguardare la propria identità di ceto. E’ pur vero che in età imperiale e specie sotto Augusto la carriera militare e la carriera civile vengono separate ed emerge una classe senatoriale locale in provincia definibile come “borghesia” in senso moderno ma che nel mondo romano veniva contraddistinta dal nome “decuriones” o “curiales” in età tardo antica. Si trattava di una classe destinata poi sotto Diocleziano a vita particolarmente difficile perché fortemente tassata dal fisco del governo centrale che non navigava in buone acque. 

Siamo dunque partiti da una piccola comunità rurale che è diventata una Repubblica e poi un impero in ascesa. Tuttavia, la politica non era di tutto riposo se solo si pensa alle liste di proscrizione mariane, sillane, a cui poi aggiungiamo quelle di Ottaviano e Antonio, di Nerone, Settimio Severo e imperatori autocrati vari. Essere proscritti significava morte certa, senza possibilità di giudizio, né di appello e talvolta erano proprio quelle ricchezze accumulate che portavano molti abbienti alla morte e non solo, quelle stesse ricchezze e quelle stesse liste condannavano anche i figli alla perdita dei diritti politici. E non si tratta di morte anche questa?. 

Per ricongiungerci circolarmente al nostro discorso di inizio relativo alla mitizzazione del passato romano secondo Saint Just come ideale civico, guardando le cose nell’insieme, ovvero Roma, un impero che è durato più di tutti e se è durato più di tutti, una superiorità Roma doveva per forza averla, allora forse il mondo è davvero vuoto dopo Roma, ma indubbiamente andando in profondità, all’interno di una vita politica come quella romana, così ricca di contraddizioni e rovesci di medaglie, probabilmente ha fatto bene chi si è ritirato quando poteva per trovare un sicuro rifugio nell’otium letterario. Forse la letteratura ci ha guadagnato ma la Repubblica no. 

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Redazione

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