Il difficile processo di integrazione dei bambini immigrati nella scuola italiana

Su Internet c’è scritto di tutto e di più riguardo alla questione dell’integrazione dei ragazzi stranieri nelle nostre aule.

Molte informazioni che leggo sono classificabili come “disinformazione”, specie sui social.  Si tratta, il più delle volte, di persone che ripetono a pappagallo i cliché che sentono in giro su Twitter e Facebook, oppure c’è sempre l’opzione del razzista di turno che grida “prima gli italiani”, pur essendo lui il primo a non essere neanche in grado di scrivere il suo nome nella lingua madre italiana.

Prima l’italiano

Quindi, “prima l’italiano” mi verrebbe da dire.

Ho dunque deciso di scrivere quest’articolo condividendo la mia esperienza in classe con i ragazzi immigrati. Esperienza sul campo, a naturale completamento della mia formazione e certificazione DITALS che mi qualifica insegnante di italiano per non italofoni – eh già, io ho ancora questo riprovevole difetto; cerco di qualificarmi il più possibile perché l’artificio di improvvisarsi e arrangiarsi è tipica dei teatranti cialtroni e vorrei tenermi ben lontana e distinta da questo modo di vedere la vita. 

Quando mi sono certificata DITALS ho cominciato quasi subito a lavorare per CaffeTalk Tokyo. Per onestà e trasparenza, lascio a voi lettori il link alla pagina del mio sito dove troverete esposti i mei diplomi DITALS in formato jpg. Inizialmente la tipologia di apprendenti con cui mi interfacciavo erano gli orientali. Giapponesi in modo particolare, perché studio da 4 anni giapponese e di conseguenza, nel 2015, decisi di prendere il diploma DITALS profilato per questa tipologia di apprendenti.

Naturalmente, l’apprendente giapponese risponde a uno specifico identikit:  lo studente/studentessa universitaria che si è iscritta nei nostri atenei per completare gli studi oppure il consulente aziendale che si trova in Italia perché magari ha firmato un contratto di uno o due anni e necessita di familiarizzare con le strutture base della lingua italiana per potersi muovere fuori dall’azienda, dove solitamente si parla anche inglese.

Con i bambini non è stata, diciamo, una mia scelta. Insegnare a ragazzini dai 6 ai 13 anni, stranieri o italiani che siano, non è mai facile ed entrano sempre in gioco molte variabili che io, insegnando principalmente ad adulti, avrei fatto fatica a tenere insieme. 

Però, all’epoca, l’associazione presso cui facevo volontariato, La Lingua del Sì,oggi sciolta, ma ancora presente su Facebook, aveva bisogna di docenti anche nelle classi di bambini.

Ho dunque svolto lezioni in aula durante il corso dell’ anno 2015 alle elementari presso l’Istituto Goffredo Petrassi di Roma e dal 2016 fino al 2019 presso la scuola media Anna Frank, quartiere Boccea a Roma.

Comincerò subito con il dire una cosa importante: nessuno di quei bambini era giunto in Italia con una barca. Si trattava di figli di extra-comunitari regolari, entrati nel nostro paese utilizzando treni e aerei – Un tipico esempio: il papà di una bambina faceva il giardiniere. Il suo datore di lavoro aveva bisogno di un altro lavorante e questo signore ha chiamato il fratello che dall’India è giunto in Italia.

Bambini regolari, adulti regolari, perciò. Solo un adulto che ho avuto in classe per un mese e mezzo era arrivato con un barcone. Infatti, trascorso questo mese, come sempre il ragazzo ripeteva fino allo sfinimento, lo studente ha smesso di frequentare il corso perché ricongiunto ai suoi parenti in Germania. Questo per dire cosa? Che chi arriva con la barca merita di essere accolto perché non è un appestato. Poi tranquilli, non ruba il lavoro a nessuno. E’ gente sveglia. Molti parlano inglese, francese e arabo e comunque sono persone che hanno perfettamente capito che in Italia il lavoro non c’è per nessuno o quasi, grazie alle politiche da sempre svolte da ladri e poltronari. Quindi, questi ragazzi sbarcano qui per poi ricongiungersi alle loro famiglie in Europa. Questo è il piano. Vogliono andare via e non rimanere.

Torniamo ai bambini. E’ difficoltoso il processo di integrazione a scuola? Sì e mentirei se dicessi il contrario, ma un ruolo fondamentale lo svolge la scuola stessa. Il ragazzo inserito in un ambiente che non percepisce come ostile, avrà maggiore possibilità di fare progressi nell’apprendimento linguistico. Ci vuole comprensione e calma perché altrimenti il risultato sarà che il ragazzo detesterà molto presto la scuola, la lingua e il paese.

Vorrei condividere con voi quello che la scuola di oggi ha bisogno per fare un buon lavoro con i ragazzi immigrati, per poi terminare l’articolo con due righe di consigli/suggerimenti ai futuri docenti DITALS.

Considerare la lingua madre dei ragazzi

Cominciamo dalla scuola e con il porre l’accento su un aspetto fondamentale: non tutti i bambini sono uguali, perché non tutte le lingue sono uguali. La lingua non è solo comunicazione, ma visione che un popolo e una cultura hanno del mondo. Pensare che un ragazzino cinese, appena arrivato in Italia, possa in poco tempo fare gli stessi progressi di un ragazzino di madrelingua spagnola, significa non avere chiaro che cosa è la lingua e come la lingua funziona. Bambini di madrelingua neolatina (francese, spagnolo, rumeno, portoghese), dunque abituati ad una morfologia flessiva, in termini di famiglia linguistica, avranno meno difficoltà a parlare (scrivere poi viene dopo) rispetto ad un parlante cinese che provenendo da una lingua madre isolante non può avere la minima idea di cosa sia una coniugazione verbale o la flessione di un aggettivo o di un sostantivo.

Il difficile processo di integrazione dei bambini immigrati nella scuola italiana

La parola “cinese” per noi può essere sostantivo o aggettivo. In quanto a genere può essere tanto femminile quanto maschile. In base al numero è singolare. Per un parlante cinese non esiste genere o numero. “Cinese” è per tale parlante, genericamente, tutto ciò che si riferisce o ha una qualche attinenza con la repubblica popolare cinese. Quindi, con questi ragazzi saranno opportune, a tempo debito, riflessioni profonde sul concetto di morfologia flessiva, per aiutarli a conformare nel loro cervello la categoria grammaticale di genere e numero.

La scuola attualmente cosa fa? Mette tutti i ragazzi, indipendentemente dalla lingua madre di base, nella stessa aula con gli italiani madrelingua e costringe i ragazzi stranieri a seguire le lezioni con i coetanei italiani. Quando poi il pomeriggio li prendiamo noi docenti DITALS, povere stelle, i ragazzini sono completamente spaesati e stralunati. 

Il difficile processo di integrazione dei bambini immigrati nella scuola italiana

Ecco… la prima cosa da fare è assicurare lezioni di italiano a questi bambini durante le ore del mattino, in separata sede dai madrelingua. In aula ci deve essere più di un docente DITALS perché studenti cinesi, così come studenti arabofoni, pakistani o indiani hanno lingue madri diverse, in termini di distanza dalla lingua target (italiano) e hanno bisogno di lezioni profilate per i loro bisogni e le loro necessità didattiche.

Se un bambino immigrato rimane indietro, non ha disturbi cognitivi. Non facciamo l’errore di tirare sempre in ballo le dislessie e problematiche simili. Molto semplicemente la didattica è stata impostata male.  Serve un insegnamento “ritagliato” sull’apprendente e che soprattutto privilegi una metodologia di tipo misto o comunicativo e ci colleghiamo qui alla seconda cosa.

Non possiamo pretendere di insegnare l’italiano a questi bambini servendoci di metodi e tecniche che normalmente si utilizzano per la didattica del latino ad esempio, ovvero la metodologia di stampo grammaticale-traduttivo. 

Niente traduzioni. L’italiano non va tradotto. E’ una lingua parlata e il ragazzo deve imparare a “saper fare” con la lingua, utilizzarla nei vari contesti sociali, definendo per lui obiettivi concreti a breve termine e poi a lungo termine.

Un obiettivo a breve termine è sicuramente quello di essere inserito nella classe con gli altri bambini di modo che capisca in aula almeno il 75 per cento di quello che i professori dicono. Poi il restante 25 arriverà, così come arriverà la risposta da parte del ragazzo.

Inizialmente un ragazzo tenderà ad ascoltare e quando sarà sicuro, solo allora parlerà.  Tale fase detta del “silenzio” non va forzata. Quindi, non forziamo il ragazzo se non si sente di prendere parte alla lezione, ma rispettiamo i suoi tempi.

L’obiettivo a lungo termine, invece, sarà naturalmente la sua educazione: frequentare la scuola nei suoi vari gradi e cicli. 

Propedeutica dell’italiano

Questa fase, chiamiamola “propedeutica” serve ai ragazzi per familiarizzare con la lingua target. Poi la grammatica verrà dopo, nel tempo. I metodi naturali sono sempre preferibili al metodo grammaticale-traduttivo. In definitiva anche i nostri genitori non ci hanno mai insegnato a coniugare i verbi nei modi e nei tempi quando eravamo bambini in età prescolare. Siamo noi che sentendo parlare i nostri genitori abbiamo cominciato a proferire le nostre prime paroline, dopo una fase di ascolto più o meno lunga, a volte lunghissima se penso ad Albert Einstein, eppure parliamo di un genio che ha cominciato a parlare tardi per la media dei bambini del tempo.

Perciò la fase propedeutica è necessaria e per favore non guardate alla fase propedeutica come una fase “forzata” che isola i bambini dal resto della classe e isolarli equivale a discriminarli. Sono tutte scemenze molto grosse, diffuse, spesso e volentieri, da aderenti ad oscuri movimenti politici stellati che non sono né carne e né pesce o da tipi e tipe che giocano a fare i comunisti ma all’atto pratico poi girano con la Ferrari e chiamano “sporco negro” il lavavetri africano che trovano al primo semaforo che incontrano.

L’obiettivo è integrare e per integrare ci vuole tempo, ma il punto di partenza è una classe di italiano vera per questi ragazzi.  Non vanno buttati nelle aule e chi si è visto si è visto. Insomma, non siamo ipocriti e cerchiamo di lavorare con i piedi per terra se vogliamo ottenere risultati. Integrazione non è lasciare i ragazzi nelle aule abbandonati a se stessi e inoltre ciò rende difficilissimo anche il lavoro del povero docente in aula.

Per questi ragazzi ci sono i docenti DITALS. Pagateli e vedrete che la scuola non potrà che trarne beneficio.

Lavoro di squadra

E ora la terza cosa: il contorno. Naturalmente il docente DITALS è un esperto di glottodidattica. Non si può neanche minimamente pensare che tale docente sia una specie di superman o wonder-woman tutto fare che va in giro a millantare competenze che non sono sue. Detto brutalmente: il docente DITALS non è né uno psicologo, né un mediatore culturale. Per fare una buona integrazione serve il team, oppure il famoso lavoro di squadra. 

Un insieme di professionisti che interagiscono sulla base delle competenze specifiche del loro campo: il docente DITALS, il mediatore culturale e lo psicologo. Ciò è fondamentale per evitare che problemi di “traduzione” culturale possano fare insorgere incomprensioni extralinguistiche che possono, a lungo andare, rallentare il processo di apprendimento linguistico nei ragazzi.

Allo stato attuale tutto ciò manca nella scuola. Ciò che i docenti DITALS fanno è, e vorrei sottolinearlo, frutto di un duro lavoro di volontariato, che molti insegnanti continuano a portare avanti per passione, dal momento che preparare una lezione come fa ogni professionista che si rispetti, porta via tempo.

Apoliticità dei docenti

Ricordate inoltre che in questo campo non esiste “destra” o “sinistra”. Le associazioni vanno rigorosamente tenute apolitiche, poi certo i docenti, presi singolarmente, avranno le loro convinzioni e la penseranno in un certo modo in termini “politici”.

L’associazione, però, non guarda colore, dal momento che la lotta contro ogni forma di razzismo deve essere un asse valoriale comune a tutti gli uomini che va oltre il partito o la credenza politica. 

Io, ad esempio, ho lavorato con docenti di sinistra e docenti di destra e non ho mai trovato posizioni razziste in nessuno dei miei ex colleghi, né mi sono mai scontrata con pregiudizi di alcun tipo. Comunismo non è sinistra come fascismo non è destra. Esistono solo individui molto stupidi e per questo si diffondono tante cretinate sui social a cui altrettanti boccaloni sono sempre pronti a credere.

E’ chiaro che per quanto le cose si facciano con passione, però, le persone hanno bisogno di soldi per vivere e se le associazioni chiudono, come la nostra, è perché i docenti non vengono pagati neanche il minimo,  e di conseguenza, le persone,  ad un certo punto, sono costrette a guardare oltre ed accettare qualsiasi lavoro con il quale possano a fine mese pagare le bollette, l’affitto o il mutuo.

Consiglio per i futuri docenti DITALS

Questo è infatti il consiglio che mi sento di dare ai futuri docenti DITALS. La situazione ideale è poter coniugare attività di volontariato e un lavoro stipendiato, ma considerate che il lavoro a scuola, per quanto formativo anche dal punto di vista umano, non è retribuito spesso e volentieri.

Esiste una classe di concorso attuale per l’insegnamento dell’italiano a bambini stranieri, ma non saprei dirvi come funziona tale classe. Invito perciò chi è interessato a consultare il sito MIUR per ulteriori informazioni.

Finché si ha la possibilità economica e il tempo sufficiente per dedicarsi a questo tipo di attività, la consiglio vivamente, ma se si è in cerca di lavoro, privilegiate sempre, prima di tutto, un’entrata, uno stipendio che vi possa consentire di vivere decorosamente, perché per fare del bene agli altri c’è sempre tempo.

Link utili

Certificazione DITALS per insegnare italiano a parlanti non italofoni: la mia esperienza

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Chiara Bellucci

Humanities – Divulgazione digitale nasce da un’idea di Chiara Bellucci, Dottorato di ricerca in Scienze Umanistiche con valutazione finale: ottimo. Completano il profilo professionale i 24 CFU richiesti per l’insegnamento di cui 12 crediti formativi conseguiti presso l’Università Telematica Internazionale Uninettuno: – Psicotecnologie: 6 crediti (Votazione 30 ) – Metodi della ricerca sulla comunicazione 6 crediti (Votazione: 30 e Lode)

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