Il tipo romano secondo Andrea Giardina

“I Romani sono meno prolifici dei Galli, più bassi dei Germani, meno forti degli Spagnoli inferiori ai Greci e meno ricchi e meno astuti degli Africani…” – e così continua un noto passo di Vegezio, autore de L’arte della Guerra che scrive tra l’altro un secolo prima del crollo dell’impero romano d’occidente, dando prova che, se negativamente i Romani potevano definirsi “carenti” in determinati ambiti o caratteristiche rispetto ad altri popoli, tuttavia, eccellevano nella guerra in termini di esercizio delle armi, disciplina militare, e modo di utilizzare gli eserciti. 

Il tipo romano secondo Andrea Giardina

Quanto la posizione di Vegezio si discosta da quella ciceroniana che parla di pietas, religio e sapienza teologica senza le quali i Romani non sarebbero mai stati, usando le parole di Livio, il “più grande popolo della terra”!. Naturalmente è folle paragonare Vegezio a Cicerone, dal momento che la cultura posseduta dal grande statista, politico, oratore e filosofo romano, dista anni luce dalla formazione di Vegezio, anzi, l’uso stesso della parola “formazione”, per un autore come Vegezio, è abbastanza agghiacciante tanto che Andrea Giardina per primo, non lo ritiene né sufficientemente colto, né sufficientemente intelligente. Tuttavia, come spesso accade, le opinione “basse” di Vegezio hanno enormemente contribuito a creare l’immagine di Roma come detentrice di una scienza bellica, quasi si trattasse di un’etica della guerra, come fattore determinante dell’espansione romana e del dominio sul mondo per 1300 anni.

Questa immagine del romano genio della guerra è secondo Giardina circoscrivibile in ambito culturale medio basso, dove l’antropologia “polare” per opposti perpetuata da Vegezio sembrava aver attecchito. Ma siamo sicuri che si trattasse proprio di ambito medio-basso? Liutprando da Cremona, Vescovo cittadino, giunse nel 968 d.C a Costantinopoli per chiedere all’imperatore bizantino Niceforo Foca un matrimonio regale per il figlio dell’imperatore Ottone I, del quale Liutprando, da bravo vassallo ne cantava le lodi, definendolo “erede dell’impero romano”. Sentito ciò, l’imperatore stizzito ribadì che Bisanzio era l’erede di Roma, puntualizzando, ancora una volta, quella scientia in ambito bellico che faceva dei bizantini dei Rhomaioie dell’attuale casata imperiale in occidente, dei semplici Longobardi, ovvero dei barbari. 

Quindi questa credenza, chiamiamola pure cliché o luogo comune, non era affatto radicata solo in ambiente medio-basso, dal momento che un imperatore bizantino, dunque si parla di un circuito diplomatico dell’ordine di una corte imperiale, la utilizza addirittura come caposaldo per giustificare la continuità impero romano d’oriente, impero romano d’occidente in un’epoca dove l’impero romano d’occidente era già caduto da 5 secoli.

Naturalmente Roma non si era fatta conoscere solo per meriti bellici. Basta cambiare contesto e cambiare autore e mi riferisco ad autori cristiani ad esempio, che l’immagine cambia totalmente: compaiono gladiatori, arene intrise di sangue e belve feroci che inseguono i poveri cristiani, di cui il numero dei morti non si conta ormai più. Indipendentemente da un discorso di fede, storicamente è stato provato come la portata delle persecuzioni cristiane sia stata assolutamente più contenuta e maggiormente praticata in Oriente e in Africa rispetto all’Occidente e che soprattutto, a proposito di mero conteggio dei morti, sicuramente le persecuzioni fecero meno strage di altre guerre religiose posteriori e volute proprio dai cristiani, ecco, malgrado tutto ciò, l’immagine dei cristiani perseguitati dalle belve romane è un’altra tipizzazione dell’uomo romano.

Paolo morì decapitato! Non c’è da stupirsi dato che i Romani amavano il taglio delle teste, basti pensare alla simbologia dei fasci, da cui, altra immagine-tipo, Roma come “la civiltà della testa tagliata”. Per l’uomo moderno è chiaro che un’immagine di questo tipo fa rabbrividire perché lo interpretiamo sulla base delle nostre categorie culturali, ma le nostre categorie culturali non sono le stesse del mondo antico e comunque la percezione della crudelitas è diversa. Focalizziamoci per un attimo sulla crocifissione degli schiavi di Spartaco, pena riservata ai non romani e per giunta ribelli.

La crocifissione per noi è atroce. E’ un bagno di sangue innanzitutto e si muore lentamente per soffocamento e arresto cardiaco. Per noi è crudele, per un romano è la punizione adeguata a chi osa alzare la testa e le armi contro Roma e non è un caso che era la punizione più adeguata ai sovvertitori dell’ordine pubblico, ma la decapitazione rapida e indolore, no, per un Romano non era crudele, così come non era crudele crocifiggere un bandito. La percezione di crudelitas per un Romano non sta nell’atto in sé, ma nell’atteggiamento eventuale del singolo che magari ride di un corpo senza testa o dà ordine di tagliare la testa di un nemico. Costui è crudele, perché tale richiesta è totalmente fuori luogo. Quando a Cesare viene consegnata la testa di Pompeo, quasi pianse, per la pietas verso l’antico collega, amico ed ex genero. Gli stessi “sacrifici umani” del mondo romano di cui c’è giunta notizia durante le guerre annibaliche vengono dallo stesso Livio marchiati come non autenticamente romani a differenza di Plinio che aveva parlato già a suo tempo, ad esempio, di genocidio per le campagne cesariane in terra gallica. Insomma, comunque ci si muove, è chiaro che un tipo romano standard non esiste e non può esistere dal momento che Roma vanta di ben 1300 anni di storia e l’uomo romano della grande Roma dei Tarquini non è lo stesso uomo della repubblica o l’uomo romano sotto Augusto o l’uomo del primo e tardo impero. 

Il tipo romano secondo Andrea Giardina

Giustamente Giardina sostiene che in un panorama geografico, politico, culturale e storico così variegato, se proprio si vuole tentare una tipizzazione dell’uomo romano, invece che ricercarla nei luoghi comuni, è più funzionale individuarla in un comune denominatore del caleidoscopico mondo romano: la città. 

Dice Giardina “per avvicinarci al tipo romano, dobbiamo avvicinarci alla città”. All’urbanitas si ricollega il topos dell’humanitas romana che compie, in un certo senso, un percorso circolare nella storia e nella letteratura latina. Il termine nasce in contrapposizione alla rusticitas del mondo contadino dove l’educazione, nel senso della scolarizzazione, manca a tutti i livelli. Per un romano, il contadino e il pastore puzzano di animale e di minestra di cipolla e dunque non possiedono quelle caratteristiche tali da permettere a questa “sottospecie” umana di elevarsi a “homo urbanus” impegnato nella politica e nelle lettere, se solo si pensa a Cicerone.

In Cicerone l’humanitas è un fatto di cortesia e cultura che coincide pienamente con la paideia greca, ma che nel corso dell’età imperiale diventa semplice gentilezza, indipendentemente che l’atto “gentile” non derivi da un effettivo esponente di qualche gens urbana, ma dall’uomo verso il proprio simile, a prescindere dallo stato sociale. Vale a dire questo tipo di humanitassi discosta dalla paideia per avvicinarsi a quel concetto di benevolenza generica ed indifferenziata espresso dalla parola greca filantropia.

Nell’Impero sembra proprio che tutti siano più buoni a partire dal potere centrale. Non è forse Caracalla che estende la cittadinanza romana nel 212 d.C a tutti i cittadini nati su suolo imperiale? Abile strategia politica mascherata dalla filantropia per assicurare allo stato tante nuove teste da tassare, come già da tempo incommensurabile i provinciali facevano: pagare il tributum soli e il tributum capitis a Roma. Però, a tutti gli effetti, l’estensione della cittadinanza comporta un progressivo venire meno della distanza centro-periferia, che all’atto pratico, si traduce in una serie indiscussa di notevoli vantaggi per chi già apparteneva ad élite cittadine di tutto rispetto, mentre i poveracci come tali erano rimasti. Di certo le città romane che nel II secolo d.C risplendono con Roma ad immagine e somiglianza della “divina”, dopo la crisi del III secolo d.C, nelle province, gli amministratori tutto sono tranne che filantropi. Si pensi a Prisco di Panion che durante un’ambasceria alla corte di Attila, si era imbattuto in uno strano tipo che lo aveva salutato in greco dicendogli – chaire – che corrisponde al latino – salve. 

Siamo nel IV secolo d.C e Prisco si stupisce di trovare un unno tanto acculturato da parlare così bene il greco, dal momento che gli Unni parlavano, oltre alla loro lingua, un po’ di latino, un po’ di lingua dei Goti e qui ci fermiamo perché il greco proprio no. Infatti, quest’uomo non era unno, ma era romano d’Oriente che a quanto pare preferiva stare con i barbari poiché gli Unni nella loro inciviltà e rozzezza, tuttavia, non tartassavano di tasse coloro che assoggettavano. I governatori provinciali erano tutt’altro che filantropi! Emerge in tutta la sua aberrazione la piaga dell’amministrazione provinciale tardoantica con cui Costantino dovette fare i conti: la corruzione. Humanitasè un termine che sembra ormai essere privo di significato se non fosse che nel IV secolo hanno operato uomini di lettere del calibro di Elio Donato e Servio a ricordarci i tempi d’oro che bisognava a questo punto salvare il più possibile per tramandarli al mondo che sarebbe venuto da lì a breve, un mondo in cui la struttura romana dava chiari segni di cedimento e che sarebbe definitivamente crollata, in silenzio o no, a seconda delle diverse opinioni degli storici, nel 476 d.C con l’imperatore Romolo Augustolo, figlio adolescente del generale Oreste che per ironia del destino portava lo stesso nome del presunto fondatore dell’Urbe. 

Strana città questa Roma – dice Giardina – , strana fin dagli esordi, quando quel Romolo che si credeva essere figlio di Marte e di una Vestale, era in realtà secondo Plutarco che cita un autore probabilmente vissuto nel 500 a.C di nome Promathion, figlio di una serva, insieme a suo fratello Remo. Certo questo giustificherebbe l’apertura dei Romani nei confronti degli schiavi che faceva scrivere a Filippo V di Macedonia quella bella lettera rivolta agli abitanti di Larissa in cui menzionava quanto filantropi fossero i Romani che addirittura restituivano la liberta agli schiavi e consentivano loro l’acquisizione dei diritti civili, da cui la generosità romana, contrapposta all’avarizia greca. Peccato che Varrone definiva uno schiavo come uno strumento vocale e un liberto, per quanto potesse ottenere la libertà, non aveva comunque alcuna possibilità di cancellare la vergogna di essere stato un tempo schiavo. Certo, almeno fino ad Augusto, che per quanto avesse sparso la sua bella quantità di sangue, in un atto di pura filantropia consentì ai liberti divenire Augustali o addetti al culto dell’imperatore e dunque inserirsi nella dinamica della promozione sociale. Anche in questo caso è doveroso ricordare però che stiamo parlando di liberti ricchi che in sostanza non fecero altro che migliorare la loro posizione sociale. 

Roma è sempre stata storia di commistione di elementi: violenza e duttilità, senso profondo e inflessibile dell’imperium e talento nell’escogitare soluzioni elastiche ai problemi se solo si pensa al pater familias che libera lo schiavo e lo rende cittadino oppure a quegli Italici ribelli che inscenano una guerra drammatica e al termine di essa ottengono la cittadinanza. Questo è l’uomo romano, questa è Roma. Tutto sta nell’individuare uno “stile” della storia romana e un equilibrio, che, come sosteneva Eraclito, parlando di polemos, sta nell’opposizione continua e costante tra forze opposte. 

Note

1 Includerei personalmente in questo discorso tutti quelli che ancora credono che Pilato in quanto rappresentate del potere di Roma in Giudea, avesse fortemente voluto la morte di Gesù e che non capiscono o non vogliono capire che la questione fu religiosa e politica ma circoscritta all’interno del sinedrio ebraico.


2 Stessa pena inflitta a Gesù di Nazareth, ribelle, ricordiamolo ancora una volta perché bestemmiatore agli occhi e alle orecchie degli esponenti del sinedrio, che non potendo crocefiggere, si servono dell’autorità romana, Pilato per ucciderlo. Ma di certo Pilato non lo riteneva un sovvertitore dell’ordine pubblico. Non apparteneva agli Zeloti. Loro sì che li volevano fuori i Romani e non a caso gli Zeloti si legano alla resistenza di Masada e al noto episodio della rivolta di Simone Bar Kochba sotto Adriano, quando quel Gesù di Nazareth era già morto da due secoli, e per di più da innocente. Era solo colpevole di una cosa agli occhi dei suoi compaesani: non si curava della presenza romana. Non si interessava di faccende politiche e nel mondo ebraico, religione e politica vanno di pari passo. Per i Giudei, quel povero disgraziato sanguinante sul Golgota non era il Messia, perché si supponeva che il loro Messia avesse una cosa che Gesù non aveva: la stoffa di leader politico. 

3 Ottaviano, futuro Augusto, non dimentichiamolo mai, volle che la testa di Bruto fosse tagliata e portata a Roma perché venisse buttata ai piedi della statua di Pompeo dove era morto Cesare, ma Antonio, per Bruto e Cassio, aveva chiesto il funerale.4 (L’uomo Romano, introduzione pag XI) 

4 (L’uomo Romano, introduzione pag XI) 

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