Lasciala andare

VISIONE A FALDA LARGA – un punto di vista con cappello e fossette. Rubrica di Alessandra Cappabianca

Un mio amico mi ha chiesto se avessi voglia di scrivere qualcosa, lasciandomi decidere in piena libertà “del cosa e del come”.

Ci ho pensato su e lì per lì non mi veniva nulla; io so parlare di poche cose, quelle che vivo con l’anima, che circondano me e poi mi entrano dentro.

Ho ripensato alle parole dell’amico: “in piena libertà”.

Bene, trovo che sia un bel tema da trattare.

Non voglio parlare della libertà di vivere ma della libertà di morire, della libertà di lasciar morire. Non leggerete posizioni politiche da parte mia, né proposte sociali. Parlerò solo di una mia esperienza personale che nulla vuole insegnare o suggerire. Anzi, accennerò appena al mio vissuto, forse mi limiterò a delirare.

Trovo che ci siano più modi per amare ma davvero infiniti sono quelli per soffrire o, per meglio dire, per gestire la sofferenza, per manifestarla… o meno. In epoca di social-network (luogo dedicato anche a raccontarsi, sebbene qualcuno storca il naso difronte a chi si narra), poi, questo è ancora più evidente.

Leggo amici e conoscenti esternare il dolore in mille modalità diverse. Non tutte le comprendo, ovviamente, ma resto fedele al concetto di “piena libertà”.

Io tendo a parlarne quando è passata o, meglio, quando si è trasformata. Quando la dolcezza ha completato il suo difficile ma benedetto compito di trasformarla in ricordi. In ricordi dolci.

L’addio cui mi riferisco è quello che ho dato a mia nonna, avvenuto dopo una lunga e straziante malattia.

Ormai priva di qualsiasi forma di reazione umana, lei, si chiedeva a me di essere inumana: mi si diceva che dovevo spronarla, come se questo avesse senso, come se vi fossero speranze.

Non lo feci. Non lo feci affatto. Regalai a me e lei un pomeriggio di silenzio e commozione.

Un piccolo miracolo rese quello il giorno più bello della mia vita.    

Nel silenzio di quattro mura, le accarezzai ripetutamente i capelli, le guance, le mani. Lei fissava il vuoto.

Ero già una donna più che adulta ma una nonna – anche una così fuori dal comune come la mia – riesce a stanare l’animus di bambina nei momenti più inaspettati, anche a 45 anni.

Così, mentre le tenevo le mani (morbidissime! Mannaggia a lei che pelle ha avuto, fino alla fine!) mi regalai un pianto non programmato, improvviso, magico, miracoloso.

Era un pianto silenzioso. Ma, come una bambina, il silenzio fu interrotto dal “nasino”. E sul punto sono drastica: per una nonna, il naso di una nipote sarà solo e sempre un “nasino”!

Le lacrime scendevano silenziose sulle guance ma inevitabilmente tirai su col naso tutto quello che non riuscivo a dire e le lacrime che non trovavano più via d’uscita dagli occhi – praticamente, un overbooking di lacrime negli occhi!

Fu quel rumore di nasino che fece destare mia nonna. All’improvviso il suo sguardo si attivò, mi guardò. Non disse nulla ma mi guardò.

E questi sono i fatti, così come andarono. Resta a me capire cosa volesse dirmi quello sguardo diretto con sicurezza e decisione verso i miei occhi. Forse era triste per me. Ma mi fa male pensare questo, mi fa male per lei. Preferisco fosse il suo addio.

Di certo, quel giorno era il nostro addio.

Nessuno mi credette quando raccontai l’episodio; parlarono di suggestione. Che amarezza, che squallore.

Quel giorno è esistito, così come l’ho vagamente descritto. Ed è il giorno più bello della mia vita. E’ stato il giorno che ha aperto le porte a tutti i ricordi di una vita insieme, litigate comprese… ma litigate bellissime, gonfie di amore e di consapevolezza di essere amate, reciprocamente.

E siccome fu un giorno da film (Cavolo! Davvero nel raccontarlo sembra la scena di un film!), vi racconto il finale:

Mi presi ancora un po’ di tempo, dopo quello sguardo… per capire cosa fosse appena successo e per smettere di piangere per questo, di piangere sul mio stesso piangere.

Uscii dalla stanza lasciandola viva.

Un piccolo passo indietro: Le avevano dato poche ore di vita giorni e giorni prima ma lei, nonna, è sempre stata testarda e dispettosa, come me, e non l’avrebbe mai data vinta a nessuno così facilmente

Torniamo a quel giorno:

Uscii anche dalla casa di cura. Ero in una Roma del terzo millennio, tra traffico e asfalto. E dall’asfalto del marciapiede, vidi spuntare un fiore lilla (tipo una margherita, ma non capisco nulla di fiori quindi accontentatevi di sapere che era “tipo una margherita ma lilla”. Quando raccontai questa storia alla mia amica Paola, lei disse “gerbera”… facciamo che mi fido e dico gerbera… ma mi sto dilungando in dettagli inutili, vero?).

Quella “gerbera” anarchica e caparbia era mia nonna, ero io. Anarchiche e caparbie entrambe come pochi al mondo.

Iniziai a sorridere con gli occhi lucidi. A sorridere tanto!

Ero andata via lasciandole, appunto, la libertà di andarsene.

E spero che quegli attimi siano stati per lei “fondamentali” come lo sono e saranno per me.

Tornai a Milano e solo allora la Dispettosa morì.

Da quel giorno è sempre stata con me.

Io non so come soffrono gli altri ma ringrazio la vita per avermi regalato questo momento di “non-sofferenza”, di avermi dato il tempo di un addio pieno di dolcezza, la stessa dolcezza che oggi mi lega a lei ogni giorno ma non proprio la dolcezza che caratterizzava la nonna fuori dal comune che la vita mi ha assegnato.

Parentesi: c’è una serie televisiva che è una vera e propria perla, “Derek”, di e con Ricky Gervais, una secchiata continua di dolcezza e umanità che ti prende in faccia ad ogni scena, ad ogni frame.

Invitandovi a vederla, e quindi senza dirvi troppo, mi permetto un solo accenno: nella serie si tratta proprio il tema dell’accompagnamento affettuoso verso la morte, con punti di dolce ilarità e narrazione di ogni forma di amore.

Per chi, come me, ha vissuto le stesse dinamiche la serie è una come carezza che ti fa ricordare momenti che, lì per lì, sembravano duri ma che oggi ricordi come coccole.

Per chi dovesse trovarsi ad affrontarle in futuro, la serie altro non è che una serie di consigli. Ed un invito: la gentilezza nei modi e la consapevolezza che una vita vissuta merita di finire, anche se fa male a chi resta. Ed accettando questo, fa molto meno male. Anzi, non fa più male. 

Torniamo a noi, a la dispettosa nonna. Al “post-finale”.

Lady Dispetto non mi dà il tempo di partecipare al funerale ma tutti i parenti rispettano il mio volere di essere io quella incaricata di prendere consegna delle ceneri (forse dovrei dirvi che ero la nipote preferita e me l’ha anche detto… spero non mi leggano fratello e cugini ma è così).

E’ una mattina bollente di luglio quando arrivo a Prima Porta. Scopro così la tentacolarità del cimitero… neanche Bagdad! Una “cagnara” mostruosa e dodicimila incombenze.

Si fanno le due quando, finalmente, l’incaricato delle pompe funebri mi chiede di attendere fuori dall’edificio destinato alle cremazioni.

Entra.

Riesce dopo qualche minuto con la classica gestualità da incaricato delle pompe funebri: mani a scodella l’una nell’altra all’altezza del cuore, come a dire “mi dispiace”.

Mi guarda e dice “Scusi Signora, c’è da attendere ancora un po’ perché, sa, NONNA E’ ANCORA CALDA”.

GIURO! Mi disse “NONNA E’ ANCORA CALDA”!!!

Ecco. Quando le protagoniste di una storia sono così bizzarre, riescono a rendere bizzarro qualsiasi momento della storia, anche dopo la morte.

Questo il mio modo di raccontare un dolore. Quando si trasforma in ricordi dolci e risate, anche quelle amare.

Questo il mio concetto di “piena libertà” di “lasciare andare”.

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Alessandra Cappabianca

Alessandra Cappabianca nasce nel 1972 e sin da giovane viene condannata a essere chiamata con una lettera di cinque lettere, la Cappa. Ancor prima, fin da minuscola inizia a vedere il mondo da un tappeto, abitudine che non ha mai perso. Si sdraia e vede le cose con la complicità della sua migliore amica, la fantasia. E' così che ai suoi occhi le cose migliorano. Ed è così che cerca di raccontarle. Appena può viaggia anche con il corpo, non solo con la mente. Al "bene o male" preferisce il "bene e mare".

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